Si tratta dell’ultimo film diretto da Jarman, con il parziale aiuto di David Lewis. È un esperimento molto radicale, monocromatico. Infatti lo schermo è completamente coperto dal colore blu mentre la voce del regista ci fa attraversare dal di dentro le tensioni di un malato terminale di Aids. È autobiografico, ma come è nello stile del regista non manca l’ironia. Una storia troppo impegnativa per il grosso pubblico. Molto bella la musica di Simon Fisher Turner.
Una ragazza sordomuta viene violentata da un marinaio. La paternità del bimbo che le nasce viene attribuita al giovane medico che aveva dimostrato interesse per la giovane aiutandola a trovare un modo di esprimersi e comunicare con gli altri. Ma il vero colpevole si scopre quando tenta di sottrarre il bambino alla madre, che disperata lo uccide. Grazie ad una testimonianza, il tribunale le riconosce la legittima difesa e la sordomuta sposa finalmente il medico.
Nel 2018, insieme all’associazione da lei fondata, PAIN (acronimo di Prescription Addiction Intervention Now), la nota fotografa Nan Goldin è protagonista di un’azione di protesta presso il MET di New York. È la prima di una serie di contestazioni plateali che puntano alla cancellazione del nome della famiglia Sackler (fondatrice e proprietaria di una delle più importanti case farmaceutiche statunitensi) dall’elenco dei nomi dei sostenitori e dalle sale o donazioni a loro intitolate. Il primo passo simbolico per denunciare le micidiali ricadute del fenomeno noto come “epidemia degli oppioidi”, il consumo massiccio e indotto di farmaci a base di ossicodone (che provocano una forte dipendenza e portano a dipendenze maggiori): centosettemila morti per overdose negli Stati Uniti solo nel 2021, con tutte le conseguenze sociali ed economiche derivanti.
In quanto parte di una generazione che ha avuto grande familiarità con le droghe, sopravvissuta lei stessa a un’overdose e alla tragica sottovalutazione dell’AIDS, Goldin è particolarmente decisa a combattere la battaglia. E racconta senza filtri alla macchina da presa di Laura Poitras, che la segue per tre anni, molte questioni personali.
Quella originaria è strettamente legata a una concezione impropria e criminale della medicalizzazione, che ha portato al suicidio della sorella Barbara. Un trauma da sempre negato e censurato dalla famiglia.
La guerra americana in Iraq (My Country, My Country), il terrorismo islamico e Guantanamo (The Oath), Julian Assange e Wikileaks (Risk), Edward Snowden (Citizenfour): con la stessa intraprendenza e sprezzo del pericolo, per il suo ultimo film, in concorso a Venezia 2022, Laura Poitras continua a scegliere contesti e individui di eccezionale resistenza e anticonformismo. Ma in All the Beauty and the Bloodshed (“tutta la bellezza e lo spargimento di sangue”, una citazione che ha a che fare con “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, il cui senso è svelato nel finale) la traccia investigativa, giornalistica, caratteristica suoi lavori precedenti, ha uno spazio meno preponderante, affidato in parte agli interventi di Patrick Radden Keefe (autore di “L’impero del dolore”, libro inchiesta sulla dinastia Sackler, che finanzia anche università come Harvard, ed è costruito sulla fortuna del Valium).
In primo piano sta invece quasi sempre l’insieme dell’opera di Nan Goldin, intrecciata a una biografia selvaggia, ai margini. Classe 1953, cresciuta in un sobborgo borghese per poi essere data in affido e aver vissuto nel nomadismo ribelle tra varie sottoculture, Goldin è nota per le sue sequenze di diapositive proiettate come film prima nei locali underground e poi nelle gallerie, la più nota delle quali è “The Ballad of Sexual Dependency”.
Una serie di scatti realizzati tra fine anni ’70 e anni ’80, nella comunità artistica libera e trasgressiva di New York, dove Goldin ha trovato la sua famiglia d’elezione. Quella che ritrae in foto intime, spesso di nudo, in interni ordinari quando non squallidi, a messinscena zero. Una costellazione di dropout da discografia dei Velvet Underground, un’umanità di drag queen, prostitute, performer, punk, persone amate. Molte decimate dall’HIV, identificato come malattia degli omosessuali maschi e anche questo, proprio come l’abuso di farmaci oppioidi, sottovalutato dalla politica.
Siamo nel 1946, la seconda guerra mondiale è terminata da poco e in una piccola città – che ora fa parte della Polonia ma prima era tedesca – una giovane vedova, Emilia, incontra un soldato americano, Norman, che deve indagare sui crimini di guerra. Entrambi, sconvolti dalla guerra, arrivano lentamente a capire che il passato non conta: per quanto possa essere stato difficile e pieno di sofferenza, l’amore e la speranza sono sempre possibili. Premiato con il Leone d’oro alla Mostra di Venezia.
Edit 20/4/24 I subita che ho integrato nel file sono difettosi e si fermano al 15° minuto. Nella cartella trovate un file .srt con i subita funzionanti (tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni)
Francia, 1963. Anne ama la letteratura e ha deciso di farne un mestiere, fuggendo un destino proletario. Sui banchi è brillante, sulla pista da ballo altrettanto. Tra una birra e un twist, dribbla gli uomini che la desiderano come in un romanzo rosa. Ma Anne preferisce la letteratura alta e affonda gli occhi blu tra le pagine di Sartre e di Camus. In un ambiente e in un Paese che condanna il suo desiderio e guarda con diffidenza alla sua differenza, Anne scopre un giorno di essere incinta e privata della libertà di decidere del proprio corpo e del proprio futuro. Intanto conta le settimane e cerca disperatamente di trovare una soluzione.
L’événement non è un film da cui si esce indenni. Adattamento del romanzo omonimo di Annie Ernaux, è la storia cruda di una ragazza al debutto della vita per cui è inimmaginabile avere un bambino e rinunciare ai suoi sogni.
Prima della legalizzazione dell’aborto e l’arrivo della pillola contraccettiva, l’interruzione della gravidanza per una donna era un campo di battaglia, il teatro di un vero dramma. L’evento del titolo accade quindici anni prima la Loi Veil, che segna un pre e un dopo. Nella Francia degli anni Sessanta, medici e pazienti rischiavano la prigione in caso di aborto. Prima che una legge consentisse a una donna il diritto all’interruzione volontaria, le donne non avevano scelta e non potevano scegliere di non avere un figlio. Rischiavano la propria salute abortendo clandestinamente e giocandosi a dadi il destino.
Emancipato con cognizione dalle questioni di coscienza, L’événement è soprattutto un’esperienza fisica, un viaggio corporale così freddo e preciso, così netto e frontale da sentire il gemito delle spettatrici in sala quando una sonda abortiva penetra il sesso della protagonista. Audrey Diwan gira in 4:3 e camera in spalla negandoci la via di fuga. Non abbiamo scelta, sentiremo da vicino tutte le emozioni di Anne. Come per la protagonista il mondo fuori non esiste. Non c’è fuori campo per noi e non c’è nessuno per lei, nessuno pronto ad aiutarla, a sostenerla, a consigliarla, a dirle anche solo che andrà tutto bene.
Non esistono personaggi empatici nel film di Audrey Diwan, secco come uno schiaffo ma riparatore come una carezza perché a prevalere alla fine è il corpo finalmente ‘liberato’ di una donna. Delle donne. Come in ogni libro di Annie Ernaux, il peccato è originale e la vergogna finisce per travolgere. Tutto il mondo si beffa delle sue protagoniste, che smettono di mangiare o di studiare come Anne, che perde la concentrazione e rischia l’avvenire letterario.
Arthur Fleck vive con l’anziana madre in un palazzone fatiscente e sbarca il lunario facendo pubblicità per la strada travestito da clown, in attesa di avere il giusto materiale per realizzare il desiderio di fare il comico. La sua vita, però, è una tragedia: ignorato, calpestato, bullizzato, preso in giro da da chiunque, ha sviluppato un tic nervoso che lo fa ridere a sproposito incontrollabilmente, rendendolo inquietante e allontanando ulteriormente da lui ogni possibile relazione sociale. Ma un giorno Arthur non ce la fa più e reagisce violentemente, pistola alla mano. Mentre la polizia di Gotham City dà la caccia al clown killer, la popolazione lo elegge a eroe metropolitano, simbolo della rivolta degli oppressi contro l’arroganza dei ricchi.
Si presenta con una carta, il Fleck di Todd Phillips, ma non è una carta da gioco: è il documento di una malattia mentale, che lo rende un emarginato, un rifiuto della società, come ci dice la prima sequenza del film, sovrapponendo al suo volto la cronaca di una città allo sbando, sommersa dalla spazzatura fisica e metaforica.
Primo stand-alone sul più famoso villain della DC Comics, il film di Todd Phillips esplora dunque la nascita di un mostro prodotto dalla società stessa, creato e nutrito da illusioni e delusioni, maltrattamenti fisici e psichici, nell’epoca che mescola spettacolo pubblico e degrado morale.
Ambientata nei primi anni ’80, l’origin story diretta, prodotta e co-scritta da Phillips colma i vuoti strategici lasciati nel passato del personaggio, mescolando le indicazioni di Alan Moore e Brian Bolland con la cronaca vera americana e con l’omaggio al cinema coevo di Scorsese, Re per una notte e Taxi Driver in particolare. Parallelamente alla costruzione narrativa della maschera di Joker, siamo invitati ad assistere alla costruzione interpretativa del personaggio che Joaquin Phoenix compie sotto i nostri occhi, trasformandosi fisicamente in altro da sé, aggiungendo energia man mano che perde peso, liberandosi progressivamente dal diktat del sorriso socialmente conveniente (“It’s so hard to be Happy all the time”) per riscrivere radicalmente e alla propria maniera le regole della commedia della vita.
1997. Trent’anni dopo la sua incarcerazione per un delitto che non ha commesso, Horacia viene rimessa in libertà. Inizia così il percorso della donna alla ricerca del suo passato: il marito, la figlia ormai adulta, il figlio scomparso e l’uomo che l’ha fatta arrestare ingiustamente. Non sarà facile per Horacia rimettere insieme la propria esistenza, frammentata come quella del suo paese, le Filippine, in un momento storico dominato dalla paura, dalla violenza e dallo smarrimento identitario. Lav Diaz si è ispirato al racconto di Tolstoj “Dio vede la verità ma non la rivela subito” per raccontare il modo in cui la casualità dell’esistenza ci conduce in direzioni impreviste senza che alcuno possa arrogarsi il diritto di stabilire ciò che per noi è davvero positivo. Ancora una volta il regista-sceneggiatore-montatore-direttore della fotografia filippino prende possesso del tempo e dello spazio e lo dilata a seconda delle esigenze della storia che racconta, e che si dipana davanti ai nostri occhi con la calma dell’attesa: quella di Horacia, ma anche la nostra, nell’aspettare la materializzazione degli innumerevoli piccoli miracoli.
A Caracas Armando, 50enne proprietario di un laboratorio odontoiatrico, sottoposto ad abusi dal padre quando era piccolo, vive in solitudine. Paga giovani sbandati che rimorchia per strada perché si spoglino a casa sua. Senza toccarli. L’incontro con il giovane Elder – orfano di padre, sottoproletario violento e anch’egli vittima di una società machista – sconvolgerà la vita di entrambi. Tremendo film, asciutto e rigoroso, originale e profondo, sul “danno”, sulla difficoltà a non ripetere gli errori subiti, sulla mancanza di trasmissione di etica e ideali, sulla orfanaggine più profonda. Forse anche, ma in seconda battuta, metafora sui rapporti di potere e sopraffazione delle classi sociali. Leone d’oro al film dell’esordiente Vigas, prima presenza del Venezuela nella storia di Venezia.
Un anziano muore d’infarto mentre stappa una bottiglia; un’attempata insegnante di flamenco tocca il suo giovane allievo che la rifiuta; una taverniera zoppa offre da bere a giovani squattrinati per un bacio; in un bar irrompono soldati del ‘700 e il re Carlo XII (1682-1718) che si invaghisce del barista; militari inglesi del primo ‘900 ustionano vivi schiavi africani in un cilindro metallico che trasforma le loro urla in musica sublime per ricchi bianchi. Sono alcuni di 39 tableaux vivants , ognuno un piano-sequenza, a volte parzialmente intersecati. 5° lungo del regista svedese, il 1° in digitale, con Canzoni del secondo piano (2000) e You, the Living – Gioisci dunque o vivente! (2007) completa un trittico sull’esistenza umana che ha la forma di un puzzle. È un film pittorico, ispirato a Otto Dix (1891-1969) e Georg Scholz (1890-1945), che comunica, più che con le parole – ridotte a tormentoni di luoghi comuni -, attraverso immagini impeccabili, tutte in toni diversi, ma ugualmente spenti, di beige-verde (fotografia di István Borbás e Gergely Pálos), al fine di indurre contemplazione e riflessione. Lo fa col tocco leggero dell’ironia, fondendo tragico e comico, tanto da suscitare la smorfia e il sorriso allo stesso tempo. Andersson chiama la sua poetica “trivialismo”, o anche “super-realismo”, perché per lui l’essenza dell’uomo sta nella coscienza della propria banalità. La sua è una poetica dell’umiltà e del distacco ironico contro ogni superomismo e ogni fanatismo. Le si attaglia una sentenza di Pascal: “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa”. Leone d’oro a Venezia 2014. Distribuisce Lucky Red.
Le peripezie – il calvario? – del marinaio Querelle (Davis) che sbarca a Brest e va incontro al suo destino di contrabbandiere d’oppio, sodomita, assassino. Ultimo film di Fassbinder, in concorso a Venezia nel settembre dello stesso anno e distribuito in Italia (dopo una bocciatura in censura) con 48 m (meno di 2 minuti) in meno e il titolo del romanzo (1947) di Jean Genet da cui è tratto. Sebbene la tematica della violenza e della sopraffazione che dominano i rapporti umani sia costante nel cinema di Fassbinder, anche nei suoi film di taglio omosessuale ( Le lacrime amare di Petra von Kant , Il diritto del più forte ), non sembra felice il suo incontro con Genet che tende a fare un’esaltazione mistica dell’abiezione e del delitto. Fassbinder non è mai stato un mistico. A livello figurativo il fascino del film è innegabile per la glaciale sapienza luministica (giallo, arancio, blu) e la stilizzazione teatrale della scenografia, ma forte è il sospetto che si tratti di un film manieristico e decorativo, sia pur di un manierismo di alta classe. C’è stilizzazione, non stile.
Rimasta vedova e impreparata alla vecchiaia, la provinciale sessantenne May è accolta nella bella casa londinese del figlio Bobby e poi in quella più povera di sua figlia Paula e inizia di nascosto una relazione con l’amante di lei, il falegname anticonformista Darren, scoprendo finalmente i piaceri del sesso. Nonostante le apparenze, il linguaggio registico del poliedrico Michell conta più della sceneggiatura di H. Kureishi, tratta da un racconto in Il corpo (2002), che pure ha il merito di trasgredire il tabù dell’inconoscibile e misconosciuta sessualità dell’alta età femminile. Dopo una 1ª parte apprezzabile per finezza psicologica e descrizione ambientale, Kureishi impregna l’invettiva di Gide (“Vi odio, famiglie!”) di una misantropia nichilista, venata di misoginia. Inquinano, nel loro crudo naturalismo, l’ultima mezz’ora e persino l’unico personaggio positivo, la protagonista May che la teatrante Reid impersona con un’intensità dolce, non priva di durezza ribelle. Girato in esterni a Shepherds Bush Green, quartiere di Londra, con un’incursione nella nuova Tate Gallery.
Whitby, Inghilterra, agosto 1897. La nave mercantile russa Demeter si è incagliata sugli scogli e dell’equipaggio non c’è traccia. Viene ritrovato soltanto il diario di bordo del capitano Eliot. Porto di Varna, Bulgaria, 4 settimane prima. Demeter sta per partire ed è a corto di uomini. Al gruppo si unisce anche Clemens, un medico inglese che ha appena salvato la vita a Toby, il nipote del capitano. Durante la traversata però iniziano a verificarsi dei fenomeni premonitori. Viene trovata una giovane donna, Anna, nella stiva, in pessime condizioni di salute e inizialmente è considerata come una clandestina. Poi viene sterminato tutto il bestiame. All’inizio si pensa a un’epidemia. La verità invece è molto più tragica.
Vari esponenti della controcultura giovanile di sinistra vengono scelti, letteralmente, come capro espiatorio per la violenta repressione delle proteste avvenute durante la convention democratica di Chicago del 1968. Con loro viene incredibilmente accusato anche Bobby Seale, co-fondatore del movimento delle Pantere Nere, che a Chicago era stato solo per quattro ore quel giorno. Grazie alle testimonianze di un gran numero di infiltrati nella protesta, si cerca di pilotare il processo verso la condanna, ma il giudice è così di parte e propenso a bizzarre decisioni da sollevare sempre più dubbi sulla regolarità del processo.
Assunto da uno strozzino per ottenere il pagamento dei debiti dai clienti in ritardo, Kang-do si comporta come un macellaio, storpiando orribilmente le sue vittime e seminando la morte. Fino a quando non si presenta alla sua porta una donna che dice di essere la madre e si addossa la colpa di ogni suo crimine, pentita di averlo abbandonato alla nascita e lasciato crescere senza amore. Dopo averla sottoposta alle prove più terribili per accertarsi che dica la verità, Kang-do accetta finalmente la donna ma la paura di perderla lo mette, per contrappasso, nella posizione di scacco in cui ha sempre tenuto le sue vittime. La vita, la morte, il denaro. Per Kim Ki-duk c’è un termine di troppo, un intruso fatale. La pietà non è un trittico ma una figura sacra, che prevede solo due attanti. Il denaro non dovrebbe avere un posto tra questi temi, ma l’ha acquisito, ed è un errore che domanda giustizia, o meglio, un giustiziere. Non c’è dubbio che Pietà sia un film sulla sproporzione. Lo dice in un sol colpo (d’occhio) l’immagine della coppia protagonista: un ragazzo gigantesco e una piccola signora, e lo ribadisce ogni scena, ogni sfumatura. La crudeltà di Kang-do è fuori misura, così come la stupidità di alcuni debitori. Lo sono la capacità di sopportazione dell’una, l’ingenuità dell’altro, l’architettura della vendetta. Lo sono, dunque, le scelte in sede di racconto e di regia: le scene di sesso dichiaratamente eccessive, l’enfasi musicale, l’utilizzo di un’attrice, Min-soo Cho, dalla bravura fuori dell’ordinario. Eppure, non si può fare a meno di avvertire anche un eccesso di sicurezza, da parte del regista sudcoreano, uno sfoggio di sé, che qualche volta toglie forza a ciò che avviene dentro l’inquadratura, o più semplicemente le impedisce di sorprenderci. È un genere, questo, che Kim ha già cavalcato e nel quale eccelle, ma non incanta più. Se non fosse per la massiccia dose di ironia che ha calato in questo diciottesimo film, probabilmente più che in ogni altro lavoro precedente, il rischio sarebbe quello della predica morale leggermente ridondante, come lo è il kyrie eleison finale. “Signore, pietà”. Salvato dall’ironia, Kim regala allora, nonostante tutto, un film circoscritto e alto, in parte ispirato dal connazionale Park Chan-wook, ma intimo e sporco, meno lirico e più radicato nelle “passioni” di questo tempo buio.
Quarta e ultima parte della tetralogia di Aleksandr Sokurov sulla natura del potere, Faust è l’unico personaggio letterario della partita, dopo Hitler (Moloch), Lenin (Taurus) e Hiroito (Il sole), ma è anche quello contenuto in nuce in tutti gli altri, per il carattere mitico e simbolico che porta in sé. Il regista russo rilegge liberamente tanto l’opera di Goethe che quella di Mann, scegliendo l’ambientazione ottocentesca e mantenendo la lingua tedesca e l’idea tragica di fondo, per cui la condizione umana consisterebbe in un continuo errare. Sokurov inscena, dunque, questa (diabolica) perseveranza nell’errore costringendo i suoi personaggi a un procedere senza sosta, a una letterale erranza tra boschi, case, lande, ghiacciai. Il protagonista del film non si ferma un istante, tanta è la sua sete di sapere e tanta è la lontananza dalla meta. A questo movimento senza soluzione di continuità si aggiunge una forza opposta ma altrettanto intensa e inestinguibile che (co)stringe gli esseri umani presenti nell’inquadratura, obbligandoli a farsi largo l’uno sugli altri, a scavalcarsi ad ogni occasione. La gestualità è teatrale, esasperata, ma la sensazione di brulicante claustrofobia ci riporta anche alla pittura di Bosch, non a caso un artista che ha utilizzato il realismo per raccontare il male immateriale e i cui dipinti pullulano di creature dannate e sofferenti. Visivamente grandioso, il Faust di Sokurov è attraversato da un’atmosfera mortifera dalla primissima all’ultima inquadratura. Il suo dottore è una creatura infelice, non affamato di sola conoscenza ma soprattutto di cibo, di sonno, di denaro e di contatto amoroso: bisogni fisiologici e materiali che collocano inequivocabilmente l’inferno su questa terra (non c’è traccia del prologo celeste e il conto degli individui in fila per firmare il patto è in continua espansione e riproduzione). Il paradosso tragico della vita espresso nell’opera è che l’uomo può giungere al divino solo con l’intervento del demonio: per questo quando Wagner chiede al dottor Faust dove si trovi l’anima, il medico -pur avendo indagato le viscere e ogni organo umano- deve ammettere che non l’ha trovata. Il suo potere è umano e dunque limitato. Con un impiego di mezzi ingente ma anche assolutamente necessario e meritato, Sokurov allestisce uno spettacolo che appaga l’occhio, un’opera d’arte potente e affascinante che ribadisce nel mentre la validità atemporale del racconto. Uno spettacolo di quelli che non siamo più abituati a sostenere senza sforzo ma che ripaga davvero l’impegno che domanda.
Nella periferia di Tokyo le giornate trascorrono indisturbate tra i pettegolezzi del vicinato, almeno fino a che si insedia una coppia di giovani hipster con una Tv. I bambini del quartiere con ogni pretesto sgattaiolano per trovarsi davanti al piccolo schermo ad assistere agli incontri di sumo. Quando la famiglia Hayashi proibisce ai propri figli di vedere la Tv, questi danno vita a uno sciopero del silenzio che genererà una serie di problemi e incomprensioni con le altre famiglie.
Shoji Sugiyama è un impiegato che lavora a Tokyo, sposato con Masako, la coppia ha perso il loro unico figlio l’anno precedente per via di una malattia.
Durante una gita con i colleghi di ufficio Shoji conosce la segretaria Kaneko con cui trascorre del tempo. Nei giorni seguenti Kaneko fa delle continue avances a Shoji che dopo una iniziale ritrosia accetta e i due intrecciano una relazione clandestina. Masako sospetta che il marito abbia un’amante ma decide di non farne parola, tuttavia è sempre più infastidita dal fatto che Shoji passi del tempo con Kaneko e questo estrania i due coniugi.
Due ragazzi diventano compagni di giochi del figlio del datore di lavoro del padre. Tra i ragazzi c’è un rapporto paritario, che però non esiste tra gli adulti. Il padre dei fanciulli deve sottostare non di rado al dispostismo del suo principale. I ragazzi assistono alle sue piccole umiliazioni e ne sono scioccati. Arrivano a disprezzare il padre. Ma perché sono piccoli. Quando diventano adulti, capiscono.
Takako e Akiko sono state abbandonate dalla madre e sono cresciute con il padre. Con lui tornano a vivere quando la prima lascia il marito alcolizzato e la seconda non riesce a proseguire la relazione con uno studente, Ken, da cui aspetta anche un figlio. Sarà proprio la ricerca di Ken, incallito giocatore d’azzardo, che porterà Akiko a incontrare una donna che sembra conoscere davvero troppo sul suo conto. Solo una madre potrebbe sapere così tante cose…
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.