In una grande villa siciliana bella e fatiscente si celebra il funerale di Giuseppe. La madre riceve la telefonata della ragazza del figlio che sta venendo in visita da Parigi. La lascia arrivare, la ospita, le nasconde la morte di Giuseppe, le mente. Esordio di Messina – già aiuto di Sorrentino – che rielabora (molto) liberamente La vita che ti diedi (1925) di Pirandello. Il tema dell’elaborazione del lutto e la psicologia dei personaggi non sono approfonditi a sufficienza. Le loro azioni, il passato non sono volutamente spiegati. Risultato esteticamente buono, ma inerte. Troppo in primo piano la Binoche. E ovviamente – come in quasi tutti i film ambientati al Sud – non potevano mancare sequenze di una processione religiosa.
Alla vergine Marie, figlia di benzinaio e fidanzata schiva di Joseph, Gabriel annuncia che avrà un figlio. Joseph smania e si dispera, ma grazie all’amore finisce per capire e accettare il figlio non suo. Epilogo degno di Buñuel. Sotto il segno della luna è un film che prende la storia della vergine Maria come modello in controluce, parafrasandolo attraverso figure contemporanee. È un film mistico, forse non cristiano, ma nemmeno blasfemo, benché non privo di un sottile umorismo in filigrana. Visivamente splendido. Distribuito in Italia – con il corto (25′) di Anne-Marie Miéville Il libro di Maria – in una edizione mal tradotta e scorciata di qualche minuto. Violenti e sdegnati attacchi di cattolici francesi e italiani (con intervento personale del papa Wojtyla). Premio della giuria ecumenica del Festival di Berlino.
Estate 1910, Baia de La Slack nel Nord della Francia. Delle sparizioni misteriose di persone spingono l’ispettore Machin e il suo assistente a recarsi sul luogo per cercare di indagare. In zona vive la famiglia Brufort a cui appartiene Ma Loute, un giovane che lavora come raccoglitore di cozze e, insieme al padre, come trasportatore a braccia di borghesi che vogliono raggiungere la riva opposta di una piccola laguna. Proprio da borghesi è formata la famiglia dei Van Peteghem che raggiunge la villa di famiglia in stile egizio situata su un’altura prospiciente il mare.
Uscito in Francia col titolo Fatale , è tratto dal romanzo di Josephine Hart, sceneggiato da David Hare. Politico inglese, leader del partito conservatore, incontra casualmente Anna, la ragazza di suo figlio, e sale sul treno rapido della passione che porta alla distruzione di una famiglia. Film sulla forza del desiderio, sulla caduta, sull’uccisione del figlio, sulla ricca società borghese, è l’opera più loseyana di Malle (1932-95). Grazie al copione sapientemente ellittico di Hare, ha armato l’eleganza fluida del suo linguaggio di un puntiglio intransigente che dà la stessa importanza agli oggetti e all’arredo come ai personaggi e che carica le sequenze erotiche di una furibonda necessità. In inglese e in italiano il titolo allude al trauma incestuoso subito in gioventù da Anna che la Binoche, orchidea nera, impersona con imperscrutabile intensità. Quello francese sottolinea, invece, la sua natura di strumento del destino. Musica di Zbigniew Preisner, assiduo collaboratore di Kieslowski.
Toscana, verso la fine della guerra 1939-45: Hana (Binoche), infermiera canadese innamorata di un artificiere indiano (Andrews), accudisce un misterioso paziente inglese (Fiennes) dal viso sfigurato di cui si rievoca in flashback l’illegittima e tragica passione per Katharine (Scott Thomas), incontrata in Egitto prima della guerra. Da un romanzo (1992) di Michael Ondaatje, un filmone a grande spettacolo dal passo lungo, ma europeo come gusto, timbro e persino a livello tecnico. Ci si può trovare un po’ di tutto: Lean, Bertolucci, l’Indiana Jones di Spielberg, il bellico hollywoodiano, i melodrammi del corpo e del cuore di Sirk, spionaggio, amore interrazziale, nazisti cattivi, inglesi con self-control (ma ribollenti dentro), erotismo, esotismo, suspense, emozioni d’arte figurativa (graffiti preistorici nel Sahara, affreschi di Piero della Francesca), il Sahara, i colli toscani e il Cairo. 9 premi Oscar: film, regia, attrice non protagonista (J. Binoche), fotografia (John Seale), scenografia, costumi, montaggio, colonna sonora drammatica, sonoro.
Un film di Leos Carax. Con Juliette Binoche, Denis Lavant, Klaus Michael Gruber Titolo originale Les Amants du Pont-Neuf. Drammatico, durata 125′ min. – Francia 1991. MYMONETRO Gli amanti del Pont-Neuf valutazione media: 3,63 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Storia di una passione sul Pont-Neuf, il più antico di Parigi, tra un insonne clochard sputafuoco e una monocola studentessa di Belle Arti. Il talento visionario di Carax è fuori discussione: lo si vede anche nel montaggio giocato sull’opposizione acqua/fuoco, sogno/oblio, movimento/immobilità. Un surrealismo forsennato s’alterna con l’esibizionismo gratuito. Ne nasce un’isteria narrativa e una sovraeccitazione espressiva che frenano l’adesione. 3 anni di riprese, set ricostruito, cinema d’autore al suo parossismo (anche finanziario) più folle. Ma la visita notturna al Louvre resterà.
Il Maggiore è un essere unico nella sua specie, il prototipo di quello che molti potrebbero diventare in futuro, e un’arma potentissima. Recuperato da un terribile incidente, il corpo biologico del Maggiore è stato sostituto con uno interamente artificiale, ma il ghost, cioè l’anima, è rimasta la sua. Da qualche parte, la parte più importante, il Maggiore è ancora umana, anche se (e proprio perché) la sua natura le pone dei dubbi che la tormentano. Li sfrutta Kuze, un misterioso terrorista, che la Section 9, capitanata dal Maggiore e gestita dalla Hanka Robotics ha l’ordine di trovare ed eliminare. Discutere, o al contrario celebrare, il grado di somiglianza tra “figlio” e “madre”, si tratti della scelta di cast di Scarlett Johansson o del film di Rupert Sanders rispetto al manga di Masamune Shiro, ci sembra un esercizio non fondamentale, che sposta il fuoco altrove rispetto al film in sé, alla sua singolarità o, per restare in tema, alla sua identità.
La cometa Halley che s’avvicina alla Terra provoca calure straordinarie e nevicate, mentre si diffonde il STBO, virus mortale che si trasmette tra chi fa l’amore senza sentimento. Amori impossibili, fantasie e apocalisse. Uno di quei film che pongono allo spettatore un’alternativa radicale: prendere o lasciare, fascino o irritazione; una mescolanza caleidoscopica e straniante di parole e immagini, in bilico tra il sublime e la parodia. Sceneggiatura sgangherata, ma un lirismo forsennato con omaggi al cinema muto e all’universo dei fumetti. Premio Delluc 1986; premio Alfred Bauer a Berlino 1987.
Prima pellicola della celebre trilogia dedicata dal regista polacco Krzysztof Kieslowski ai tre colori della bandiera francese e, di conseguenza, al motto della rivoluzione francese, “Liberté, Égalité, Fraternité”. Il film, che gli valse il Leone d’Oro, ci costringe a un confronto impietoso col paradosso della necessità della protagonista di una sorta di “libertà emotiva” che la spinge a un’elaborazione del lutto singolare: Julie, transita attraverso un dolore asciutto ed estremo, quasi schizofrenico, convincendosi che per ricominciare sia necessario annullare le memorie passate e che l’unico mezzo per redimersi dal dolore sia abdicare all’oggetto della sofferenza. Dapprima frastornata dalle immagini del corteo funebre del marito e della sua bambina che scorrono sulla tv dell’ospedale e dopo un tentativo di suicidio approssimativo divorando un flacone di pillole qualunque, ogni suo atto è votato a eliminare il suo trascorso di madre e moglie (anziché preservare gelosamente le vestigia della sua pargola defunta, divora nevroticamente la caramella della sua bambina ritrovata in borsa, non già per assaporarne il ricordo ma quasi come a cancellarne il ricordo terrestre). Così come la risata dissacrante all’ascolto della testimonianza del ragazzo che aveva involontariamente assistito all’agonia del marito (“Stava raccontando una barzelletta”): tutto in lei sembra volto alla contaminazione e alla vaporizzazione della sua esistenza pre-incidente (si spingerà fino a distruggere l’opera ultima di suo marito, compositore di fama). Lo stato vegetativo emotivo, volontario asilo politico dalla passione, al riparo dalla vita e dallo stesso dolore precipita rovinosamente quando la nostra eroina viene posta di fronte lo specchio irreversibile delle scelte: l’amore di Olivier, amico e collaboratore del marito, la scoperta dell’embrione nel ventre dell’amante di suo marito. Il ritorno alla vita (già suggerito dalle continue immersioni in piscina di Julie, in cui la donna, pare tornare nel rassicurante oblio del liquido amniotico, liberandosi da qualsiasi pressione esercitata dalla forza di gravità terrestre e scivolando nell’apnea emotiva di un non-luogo interiore) viene celebrato nel delicato slancio emotivo della memorabile pagina cinematografica in cui Julie scoprendo l’esistenza di un nido di topolini nello sgabuzzino e, intenerita come fosse in una nursery, li risparmia, compiendo la sua prima scelta dall’inizio della pellicola: la vita.
Inverno 1915. Camille Claudel è stata reclusa dai suoi familiari in una casa di cura psichiatrica. Ha dovuto abbandonare Parigi e porre fine alla sua attività di scultrice. Ora attende la visita del fratello maggiore Paul nutrendo la speranza di poter finalmente uscire dall’istituto e fare ritorno a casa. Nata nel 1864 nel nord della Francia Camille Claudel fu dapprima allieva di Auguste Rodin divenendo la sua compagna per 15 anni, fino a quando i due si separarono nel 1895. Nel 1913, in seguito alla morte del padre e dopo aver passato dieci anni praticamente asserragliata nel proprio studio, la madre la fece internare a Ville Evrard. Vi morirà nel 1943 senza aver mai più fatto ritorno in famiglia.
L’apertura di un peccaminoso negozio di cioccolata da parte della giovane Vianne Rocher nel minuscolo villaggio di Lansquenet, scatena una vera e propria guerra all’interno della città, tra quelli che non vedono di buon occhio il negozio e quelli che desiderano assaporare la libertà che hanno appena scoperto.
Un medico cecoslovacco, intellettuale e donnaiolo, sposa una ragazza di campagna che sopporta, sia pure obtorto collo, i suoi tradimenti. La coppia viene sorpresa dall’invasione dei carri armati russi nella Praga del 1968. Ottima traduzione filmica del romanzo di Milan Kundera.
Il film è basato sulla vera storia del salvataggio dei 33 minatori cileni intrappolati mezzo miglio sotto la superficie della miniera di San Jose, per 69 giorni. La pellicola racconterà il cedimento della miniera e gli sforzi delle squadre di soccorso. La sceneggiatura è stata scritta con l’aiuto dei minatori e i produttori hanno assicurato che la pellicola conterrà dei dettagli che non sono mai stati resi pubblici.
Due fratelli e una sorella si ritrovano insieme per una dolorosa riunione: la morte della loro madre. Dopo le lacrime e il funerale, Jeremie, Frederic e Adrienne devono occuparsi del patrimonio di famiglia: un’enorme casa nella campagna francese con una splendida collezione d’arte che la madre, negli anni, aveva fatto crescere con cura. Il tesoro familiare, da custodire con amore, li riporta indietro nel tempo, a quando la caccia al tesoro era solo un gioco da fare in un rigoglioso giardino, d’estate. Una decisione da prendere diventa, così, il punto di partenza di un viaggio nelle memorie d’infanzia, grazie al quale impareranno a dare un nuovo significato alla parola famiglia.
Girato a Parigi e, in piccola parte, in Romania; parlato in francese, rumeno, bambara (dialetto del Mali) e linguaggio dei gesti. Una mezza dozzina di storie s’intrecciano o si sfiorano in modo frammentario e discontinuo, spesso esposte in piani-sequenza. Temi di attualità: incapacità di comunicare (titolo francese ambivalente), confusione delle lingue, immigrazione, xenofobia, alienazione urbana, freddezza e indifferenza della società dei consumi, deriva sociale. E la violenza, quasi sempre fuori campo. Molte domande, nessuna risposta. Anzi si mette in dubbio lo stesso statuto delle domande. Realtà e finzione si scambiano di posto. È il meno crudele e il più inventato dei film del pessimista Haneke, cineasta austriaco per “felici pochi” che ha trovato in Francia una seconda patria, fedele alle tre regole di H. James: “Fate sentire, fate pensare, fate vedere”. Lavorando di sottrazione richiede spettatori attivi.
Haneke ricorre a un dispositivo narrativo, qui più raffinato, sugli effetti di una misteriosa minaccia esterna che devasta un nucleo familiare, quello di Georges, critico letterario che conduce un programma TV. Riceve una serie di videocassette anonime, corredate di inquietanti disegni infantili, che riproducono immagini quotidiane della sua vita privata, spostandosi dalla casa di Parigi a una fattoria dove trascorse l’infanzia e a un monolocale della periferia. L’arrivo delle cassette mette in crisi il rapporto di Georges con la moglie e il figlio adolescente, lo costringe a fare i conti con se stesso e il suo passato rimosso di bambino viziato, bugiardo, meschino e rivela la sua vera natura: non è cambiato. In sottotraccia una dimensione storica (la cancellazione della guerra d’Algeria e delle sue conseguenze). La suspense psicologica del rimosso è condotta con maestria da una scrittura distillata nella dilatazione delle immagini immobili. Rivela, però, l’artificiosità del dispositivo nel rifiuto di rispondere alla domanda: chi ha filmato le cassette e come? (Vedi la terribile scena del suicidio.) È inverosimile che nessuno nel film si ponga il problema, nemmeno Georges che pure lavora in televisione. Nel togliergli la maschera il sadico Haneke rivela che è persino stupido.
Sceneggiato in 6 giorni dal regista e tratto dal romanzo (2003) di Don DeLillo di cui, oltre ai contenuti quasi profetici, aveva apprezzato l’originalità dei dialoghi, il film del canadese Cronenberg ha per protagonista assoluto il 28enne miliardario Eric Packer. L’azione parte con un paradosso: abitante in un lussuoso attico dell’East River di Manhattan, Packer ordina ai suoi accoliti di portarlo – sulla sua limousine bianca – nel lontano quartiere popolare Hell’s Kitchen a farsi tagliare i capelli dal suo vecchio barbiere. A cominciare dall’immensa limousine che gli serve come ufficio e alcova per intermezzi di sesso e dalla quale può mandare in tilt borse europee e asiatiche, Packer è qualcuno che prevede le cose prima che succedano, anche l’impennarsi dello yuan cinese (nel romanzo era lo yen giapponese…) che gli sta sgretolando il suo impero di dollari. In questo film allucinante, apparentemente realistico e asettico, sul potere del denaro e sui modi in cui influenza il mondo, si fantastica su un’unità monetaria col topo al posto del dollaro (e lo si vede gigantesco). “Uno spettro si aggira per l’Europa” scrisse nell’800 Karl Marx, parlando del comunismo. Qui lo spettro è quello del capitalismo. Convinto che si possa comprare tutto, Packer è consapevole della propria fine, ma non ha previsto l’incontro con Benno Levin (un memorabile Giamatti) che occupa gli ultimi 20 minuti di dialogo puro, con finale a sorpresa. Un motivo in più per vedere Cosmopolis .
Delicata (come è caratteristica di Techiné), ma anche violenta (come non è sua caratteristica) vicenda di una maturazione emotiva. Juliette Binoche è una ragazza di provincia che va a Parigi decisa a conquistare il successo come attrice, valendosi anche, senza particolari scrupoli, dell’attrazione che esercita sugli uomini. Ma va a letto con gli uomini sbagliati. Uno dei quali, un giovane attore di successo, muore (ma praticamente è un suicidio) in un incidente stradale. A recuperare la ragazza (come donna e come attrice) sarà il suocero del defunto, un regista teatrale, che la prende come protagonista di Romeo e Giulietta.
Marie Palesi sta recitando in Israele in un film in cui interpreta il ruolo di Maria di Magdala. Quando le riprese si concludono Marie, invece di tornare a New York con il regista Childless, fugge a Gerusalemme. Un anno e mezzo dopo l’anchorman Theodor Younger ha come ospite nel suo programma, dedicato alla figura di Gesù, il presidente dell’Unione Comunità Ebraiche in Italia Amos Luzzatto. Seguiranno altre trasmissioni mentre si avvicina la data della prima del film di Childless che pare destinato a fare scandalo. Intanto Marie è ancora a Gerusalemme. Originariamente il ruolo di Marie, per questo che è uno dei film più ‘personali’ di Abel Ferrara, doveva andare a Monica Bellucci che, incinta, ha dovuto rinunciare. Questo dato di cronaca relativa al casting può essere utile per valutare il ‘peso’ della presenza del personaggio e per immaginarselo interpretato dall’attrice italiana. Ciò che però ci dà la misura dell’interesse che il regista ha provato per il soggetto è il sapere che, dopo la separazione dal fedele Nicholas St.John, Ferrara affronta il tema della religione sentendo il bisogno non solo di avere come testimonial nel ruolo di se stesso Luzzatto, il monaco Nicoletto o il teologo Leloup ma anche quello di documentarsi. Eccolo allora mettersi alla ricerca di un Gesù per lui vero uomo più che vero Dio, leggendo i vangeli gnostici di Hag Hammadi insieme agli studi del citato Leloup. Quella che porta sullo schermo è ancora una volta un’umanità dilaniata tra grandi e piccoli conflitti che sente con forza il senso di colpa e cerca di sfuggirvi facendosi assorbire da una città (Marie) o cercando rifugio nell’atto del pregare di cui però non conosce la più profonda essenza.
James Miller, un noto saggista, presenta a Firenze il suo ultimo libro intitolato «Copia conforme» nel quale sostiene che le copie abbiano un valore intrinseco superiore all’originale. Lei, una piccola mercante d’arte, assiste con il figlio alla presentazione e poi fa in modo di conoscere l’autore per fargli firmare alcune copie. Il giorno successivo, domenica, lo accompagnerà a Lucignano per ‘mostrargli una sorpresa’. Mentre i due si trovano in un piccolo locale e lui è uscito per rispondere a una telefonata, la proprietaria allude a loro come a una coppia sposata e Lei sta al gioco. Gioco che proseguirà anche al rientro di James. Alla non più tenera età di 70 anni (portati peraltro benissimo) è nato un nuovo Kiarostami. Se ne era avuta una prima avvisaglia nell’incerto episodio di Ticketsma oggi, dopo il teorico Shirin, ne abbiamo una piacevolissima conferma. Intendiamoci: il pluripremiato e osannato dalla critica (che a Cannes è sembrata oltremisura spiazzata) non ha affatto smesso di interrogarsi sulla natura umana e non ha neppure rinunciato a una ricerca stilistica. Ha però scelto una modalità diversa di approccio. Ha deciso cioè di compiere ancora, come spesso è accaduto nel suo cinema, un viaggio che comportasse non solo uno spostamento fisico nello spazio ma un percorso, talvolta doloroso, nelle psicologie dei personaggi. È quanto accade anche questa volta ma con una leggerezza e una voglia di ‘giocare’ (non dimentichiamo mai che in francese e in inglese recitare diventa ‘to play’ e ‘jouer’) con un doppio livello di rappresentazione.
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