Dei sei partecipanti alla rapina fallita di una gioielleria a Los Angeles – che non si conoscono nemmeno tra loro e sono stati ribattezzati con nomi di colori – due sono morti (Mr. Blue = Bunker e Mr. Brown = Tarantino) e un terzo (Mr. Orange = Roth) è ferito. I quattro superstiti si ritrovano in un deposito: uno di loro è una spia. Il deposito è il teatro principale dell’azione, frantumata in sconnessioni temporali che forniscono notizie su quel che è successo prima e dopo la rapina/trappola. Ottimo esordio di un giovane attore-sceneggiatore (1963) che allunga la lista eccellente dei registi americani di origine italiana con un film sotto il segno della morte e della violenza, caso raro di opera d’autore a basso costo nel quadro del cinema gangsteristico. Anche nella scena più cruda – la tortura del poliziotto – non c’è compiacimento: Tarantino è radicale, non morboso. Nella rappresentazione del mondo del crimine manca qualsiasi alone romantico. La compagnia degli interpreti è eccellente: oltre a Keitel (Mr. White) che del film è anche uno dei produttori, bisogna citare almeno Roth e Buscemi (Mr. Pink). Madsen è il sadico Mr. Blonde. Rititolato in Italia, con eguale insuccesso, Cani da rapina , dopo Pulp Fiction . V.M. 18 anni.
Chi ha voluto leggere nella vicenda umana di queste due ragazze di provincia una mera fiaba didascalica sul femminismo si perde il microcosmo racchiuso nei…continui giochi di rimando di significati creato dall’armonia del compenso tra la spigolosità del volto della Sarandon e quello da bambola della Davis.E così nei loro nomi, spesso ipostatizzati nella forza fagocitatrice di un titolo che suggerisce la smania di un brand o di un marchio di sigarette, vi è la fragilità disperata con cui le due ragazze abdicano allo stillicidio quotidiano per risorgere in un anomico non luogo dei ruoli sociali, che le accompagnerà per tutta la loro corsa fino al Gran Canyon. In realtà, la tensione dell’intera pellicola, è una spinta continua sul pedale dell’emancipazione delle due protagoniste. La risata degli ultimi fotogrammi, immortalata nell’immaginario collettivo delle generazioni cinematografiche a venire, non è follia, né un cedimento momentaneo e irreversibile all’emotività, ma la più alta affermazione di dignità e libertà. Scelgono di non esserci più per esserci per sempre: il fotogramma finale dell’auto sospesa nel dirupo è metafora dell’ellisse di una fine che coincide con un inizio. Gli sguardi complici non indicano nulla di improvvisato, anche se lo spettatore viene colto di sorpresa a perpetrare la sua incredulità: perché l’auto di Thelma & Louise, se anche fosse in nostro potere proiettare degli ideali fotogrammi successivi, sul fondo del dirupo del Gran Canyon, non ci arriverà mai. Pellicola di un eccellente Ridley Scott che trascende qualsiasi genere, pur possedendo uno scheletro western, con la scenografia di uno sterminato Arkansas a fare da sfondo, e più che mai attuale e paradigmatico in una generazione in cui la violenza e l’eccidio femminile appare tutt’altro che sopito dai resoconti della cronaca nera. Il viaggio tutto interiore che le trasporta dall’Arkansas all’Oklaoma, fino al Colorado, con la scelta irreversibile dell’omicidio dell’uomo, ne rivela la fragilità ma anche l’incapacità di rapportarsi a un universo maschile assolutista e prepotente, palesandone la mancata educazione alla necessità di una complementarietà dei ruoli sessuali (ti elimino perché sei un ostacolo, perché ti reputo distruttivo ma anche insormontabile all’impellente e disperante necessità di affermazione del mio Io; ti ammazzo poiché la stessa dimensione collettiva del momento storico non contempla una tale chance di scambio dialettico ed edificante; ti uccido perché è tutto ciò che mi resta per dimostrarti e dimostrarmi che non sei il più forte).
È sempre difficile fare la biografia cinematografica di un artista, tra l’altro contemporaneo, ed elevarlo a santone come ha fatto Oliver Stone. Lui dice di aver sempre adorato Jim Morrison dei Doors, ma il risultato lo rappresenta come un povero pazzo che credeva di essere un nuovo Messia e che vede sfruttata la sua ingenuità per scopi commerciali.
Morrison era ossessionato dall’arte in generale, amava il cinema europeo di Godard e di Antonioni, la poesia di Baudelaire e Rimbaud. Non meritava, pur nelle buone intenzioni del regista, un caleidoscopio virtuosistico ma pieno di maniera, dove personaggi come Nico dei Velvet Underground e Andy Warhol vengono rappresentati come macchiette. Rimane la grande musica dei Doors. Buon successo di pubblico.
Scritto da Paul Attanasio e basato sul libro My Undercover Life in the Mafia di Joseph D. Pistone. Pistone, agente dell’FBI si infiltra in un’organizzazione mafiosa di Little Italy come Donnie Brasco, ricettatore di gioielli, e conquista la fiducia di Lefty, anziano mafioso e manovale del crimine. Tra i due nasce un’amicizia impossibile, destinata a una tragica fine. Ha fatto centro il neozelandese M. Newell, attivo dal 1976 nel cinema britannico, con questo suo 1° film hollywoodiano: dopo il successo di Quattro matrimoni e un funerale si cimenta con un mafia movie diverso dagli altri, privo di sangue e violenza (se si toglie una sequenza verso la fine, fulminea e atroce), di ammirevole definizione psicologica, accurato nei particolari e nelle sfumature. L’epilogo è di una malinconia struggente, ma anche uno dei più lucidi dell’ultimo cinema americano: entrambi i personaggi sono strumenti e vittime delle istituzioni cui appartengono. Straordinario Pacino, ottimamente doppiato ancora una volta da Giancarlo Giannini; Depp (con la voce di Riccardo Rossi) si conferma a 33 anni come l’attore più duttile ed espressivo della sua generazione.
È tornato Quentin. La lunga e snervante attesa è finalmente finita ed il “suo” quarto film (o meglio la prima parte del suo quarto film) scorre sullo schermo. Già dai titoli di testa, i fan si tranquillizzano: l’elenco dei personaggi in stile lista della spesa, il primo piano del volto tumefatto dell’attrice con uno sparo e relativa dissolvenza in nero ci dimostrano che “colui che era conosciuto come genio” (da molti), è tornato brillante come un tempo. Kill Bill è stancante, una piacevole fatica per lo spettatore che dovrebbe rivedere alcuni momenti in slowmotion o più volte per apprezzarli appieno. La struttura stessa del film, a episodi con continui flashback tra passato e presente disorienta e stordisce. Tarantino inonda letteralmente ogni scena di forma e contenuti: occhiali da sole disposti in ordinate file sul cruscotto d una macchina, aerei di plastica che volano su scene di cartapesta, tute gialle indossate da Bruce Lee, alluci mobili, occhi cerulei e tanto, tantissimo sangue. Kill Bill è un Helzapoppin. Ed il gusto per la battuta spiazzante, per l’umorismo cinico e beffardo è rimasta la stessa. Se Jackie Brown voleva essere un omaggio al Blaxploitation, Kill Bill è exploitation puro e semplice. Quentin si circonda di un team che sa il fatto suo e spende parecchio: il risultato si vede. Non un’inquadratura fuori posto, non un movimento di camera infelice.Kill Bill, formalmente si avvicina alla perfezione. Gli anni hanno permesso di affinare una già ottima tecnica. La brillantezza di Tarantino è palesemente dimostrata anche dall’attenzione che il regista-spettatore mostra verso le tendenze cinematografiche che hanno dimostrato maggiore dinamismo negli ultimi anni, in primis l’animazione. Vero e proprio film nel film, i venti minuti firmati I.G. Production, che raccontano la tragica infanzia di una delle future vittime della bionda protagonista, nella fattispecie la strabica Lucy Liu, killer della Yakuza, rappresentano una rara gemma di intensità emotiva e spessore drammaturgico. Le sequenze animate della casa nipponica, oltre ad essere un felicissimo esempio di contaminazione metacinamatografica, dimostrano inequivocabilmente la maturità raggiunta da un mezzo espressivo, troppo spesso bistrattato dal cinema “tradizionale”. Una grande differenza rispetto alle passate produzioni si nota nella gestione degli attori da parte del regista. Le precedenti opere erano quadri corali in cui era difficile trovare un personaggio smaccatamente preponderante rispetto agli altri (ed infatti clamore suscitò ai tempi la decisione dell’Academy di candidare all’Oscar come attore protagonista Travolta e non protagonista Samuel L. Jackson per Pulp fiction, visto che la presenza sullo schermo era pressoché identica per spessore e minutaggio), in Kill Bill la Thurman, splendida e affascinanante, è in ogni inquadratura, in ogni scena, occupa da sola l’intero schermo e storia. Tarantino ha fatto bene ad aspettarla (il film trova tra le numerose cause del ritardo accumulato, la inaspettata gravidanza dell’attrice all’inizio delle riprese): Kill Bill segna la sua migliore performance di sempre. In ogni caso la presenza di nomi storici del cinema di serie B (ma dove?) come Sonny Chiba e Gordon Liu, nobilità e da spessore e sostanza ad un cast invero un po’atipico e non perfettamente amalgamato (basta con Lucy Liu!!!) Straordinaria la colonna sonora che spazia da brani dance anni 70 a motivi tradizionali giapponesi, per finire in morbide ballate blues: il giro del mondo in una ventina di pezzi che vanno a comporre un quadro fecondo come quello che accompagnò Pulp Fiction dieci anni fa. Impossibile descrivere appieno il carico di significati alti e bassi che Kill Bill lascia alla libera interpretazione dello spettatore. Se è facile notare un collegamento tra il coma da cui si risveglia la protagonista ed il sonno creativo di Tarantino (entrambi hanno la stessa durata… 4 anni), più sottili sono i riferimenti estetici e filosofi ad una violenza che, pur brutale, assume connotati parodistici e cartooneschi. Purtroppo però, come e forse più di altri film del regista, Kill Bill soffre in maniera drammatica di un difetto di non poco conto. È troppo lungo, anzi, troppo tirato per le lunghe e la durata di certi segmenti del film, specie la battaglia che porta al primo regolamento di conti (che in questa prima parte del film è l’ultimo in ordine temporale) stanca attori e spettatori. Intendiamoci, le coreografie e l’impatto scenico dei duelli ridicolizzano per intensità ed ferocia le laccate evoluzioni di Matrix et similia ma dopo venti minuti, la misura è colma. Evidentemente in fase di totale autocompiacimento, Tarantino allunga, distorce, plagia situazioni che potrebbero e dovrebbero risolversi con maggiore velocità. Il difetto,evidente, non nuoce però alla valutazione globale del film che de facto è agli stessi, alti livelli di Pulp Fiction. In effetti un altro difetto ci sarebbe: il dover aspettare altri quattro mesi per vedere la fine delle avventure della vendicatrice più determinata della storia del cinema. Ma questa è un’altra storia… (Quasi) capolavoro.