Regia di Liz Friedlander. Un film con Antonio Banderas, Rob Brown, Yaya DaCosta, Alfre Woodard, Dante Basco. Titolo originale: Take the Lead. Genere: Drammatico, Musicale, Biografico. Paese: Stati Uniti. Anno: 2006. Durata: 108 min. Consigliato a: da 10 anni. Valutazione IMDb: 6.7.
Il film è ispirato alla storia vera di Pierre Dulaine, un rinomato ballerino professionista di ballo da sala a Manhattan che, in seguito a un atto di vandalismo giovanile, decide di offrirsi come volontario per insegnare danza a un gruppo di studenti difficili e detenuti in una scuola pubblica del degrado di New York. Inizialmente, i ragazzi, abituati alla cultura hip-hop e scettici verso il “vecchio” ballo da sala, respingono con sarcasmo la proposta. La convivenza forzata e l’inflessibile ma rispettoso approccio di Dulaine, tuttavia, cominciano lentamente a erodere le loro resistenze, spingendoli a una inattesa fusione di stili che culminerà in una prestigiosa competizione cittadina.
Il film, pur basandosi su una storia edificante e vera, si inserisce nel collaudato filone narrativo del mentore che ispira giovani disadattati, risultando a tratti prevedibile nella sua struttura. I temi centrali sono il potere della disciplina, del rispetto reciproco e dell’arte (la danza in particolare) come veicolo di riscatto sociale e crescita personale, elementi che si mescolano a spunti sulle difficili realtà familiari e di quartiere. Le performance del giovane cast sono energiche e convincenti, specialmente nelle sequenze coreografiche, che rappresentano il punto di forza del film, grazie all’abile regia della Friedlander, proveniente dal mondo dei videoclip. Antonio Banderas offre un’interpretazione misurata e carismatica di Dulaine. Nonostante i cliché di genere, il film riesce a trasmettere un messaggio positivo e a celebrare la fusione culturale e stilistica, risultando un onesto e godibile dramma sull’importanza dell’opportunità e della guida.
Sceneggiatore di Los Angeles infelice si aggira tra splendidi paesaggi degli USA e festini hollywoodiani – già stravisti – in case meravigliose (alla faccia della miseria), dove regnano le solite droghe, il solito alcol a fiumi, il solito sesso commerciale, le solite feste in piscina che finiscono con tutti in acqua vestiti. Estetizzante, compiaciuto, narcisistico e greve per eccesso di simbolismi con l’aggravante di: voce (che cambia) fuori campo – roca e sospirante -raccontando una fiaba/metafora o con commenti sui massimi sistemi; divisione in capitoletti con relativi titoli (dalle carte dei Tarocchi); dialoghi vacui o insostenibili; altre scene di congressi carnali mortiferi; corsette e rincorse in spiaggia in cui nessuno bada ai costosi vestiti e alle costose scarpe bagnati dall’acqua del mare. Ci sono anche un fratello e un padre (che litigano continuamente), qualche ex ancora amata e sofferente, scene oniriche. Non se ne può più di tutto ciò e non se ne può più di una vicenda in cui tutti devono per forza essere “strani” e nessuno si diverte. E non se ne può più nemmeno del tenebroso Bale.
Nel 922 d.C. Ahmad ibn Fadlan, poeta alla corte di Baghdad, è costretto ad arruolarsi con dodici guerrieri vichinghi che tornano in patria per difendere il re normanno Hrothgar contro un’orda feroce di Wendol, cannibali tatuati e cacciatori di teste, travestiti da orsi o cinghiali. Dal romanzo Eaters of the Dead (Mangiatori di morti, 1976) di Michael Crichton, J. McTiernan, specialista di cinema d’azione, ha cavato un notturno film epico-avventuroso da 85 milioni di dollari, rimodernato con effetti speciali e risvolti orrorifici, girato nel 1998 in esterni della British Columbia. Adattato da William Wisher e Warren Lewis, rimase bloccato per un anno per insanabili contrasti tra il regista e Crichton, uno dei produttori. Pur non privo qua e là di pagine suggestive, soccombe sotto il peso di troppe e contraddittorie intenzioni in cui la partitura musicale del vecchio Jerry Goldsmith (1929) cerca vanamente di mettere ordine. Si distingue, comunque, dalla stereotipata spettacolarità hollywoodiana per un’insolita nota filoaraba, non priva di accenti ironici, al servizio del protagonista
Torero in ritiro e avvocatessa s’incontrano, si amano, si uccidono nell’attimo del piacere. Melodramma sulla corrida tutto sopra le righe dove gli esseri umani sostituiscono i tori, con un sottofondo di ironia provocatoria. Amore e morte in una Spagna divisa tra rock e Opus Dei.
Un decrepito albergo di Los Angeles è teatro degli episodi narrati dai quattro registi. Il filo conduttore è il portiere Tim Roth, agitato e “cartonesco”. Ha a che fare con una congrega di streghe, due bambini pestiferi, una coppia sadomaso e una scommessa riciclata da un telefilm di Hitchcock (quella del dito tagliato). Un film che può anche essere evitato.
Un paparazzo interpretato da Banderas fotografa, durante il Festival di Cannes, una ragazza bellissima che sta cercando di mettere a segno un colpo clamoroso. La donna, la femme fatale (interpretata da Rebecca Romjin-Stamos), è immortalata sulla copertina del rotocalco. Alcuni gangster parigini la riconoscono come una persona, creduta morta, con cui hanno dei conti in sospeso. È arrivato il momento di regolarli. La bella donna inizia ad essere braccata e allora decide di coinvolgere nelle sue peripezie anche il fotografo che l’ha inguaiata. Per il regista, Femme Fatale è un omaggio al noir classico francese, ma risente anche di certe atmosfere rarefatte di Blow-up di Michelangelo Antonioni.
Alfie ha lasciato la moglie Helena perchè, colto da improvvisa paura della propria senilità, ha deciso di cambiare vita. Ha iniziato così una relazione (divenuta matrimonio) con una call girl piuttosto vistosa, Charmaine. Helena ha cercato di porre rimedio alla propria improvvisa disperata solitudine cercando prima consiglio da uno psicologo e poi affidandosi completamente alle ‘cure’ di una sedicente maga capace di predire il futuro. La loro figlia Sally intanto deve affrontare un matrimonio che nonfunziona più visto che il marito Roy, dopo aver scritto un romanzo di successo, non è più riuscito ad ottenere un esito che lo soddisfi. Sally ora lavora a stretto contatto con un gallerista, Greg, che comincia a piacerle non solo sul piano professionale…
Il volo 2549 della compagnia Península, diretto a Città del Messico, registra un danno tecnico al carrello. Azzoppato come il suo bizzarro equipaggio, l’aereo gira in tondo sul cielo di Toledo in attesa che un aeroporto venga attrezzato per gestire atterraggio e emergenza. ‘Narcotizzati’ i passeggeri e le hostess della classe turistica, a vegliare i pochi clienti della business ci sono due assistenti di volo e il responsabile di cabina, col vizio della tequila e del sesso ad alta quota. Invaghito del capitano, bisessuale, non disdegna una fellatio al co-pilota, ancora indeciso sulla sua natura e in attesa di istruzioni dalla torre di controllo. Composti ai loro posti conversano intanto di vita e di morte una coppia di sposi novelli e drogati, un finanziere ricercato, un killer professionista, un playboy irriducibile, una consumata protagonista della cronaca rosa e una rabdomante di trapassi vergine. Intrattenuti con siparietti e agua de Valencia corretta alla mescalina, sognano il Messico e dimenticano la paura, ‘precipitando’ nel sesso e nel piacere. Dopo aver ‘cambiato pelle’ e abitato i tessuti delle emozioni, Pedro Almodóvar lascia il principio di realtà per quello del piacere. Decollato e invertita la rotta, vola verso il passato e una ritrovata esuberanza sessuale. A governare un aereo in avaria e in volo a ellissi su Toledo è la legge del desiderio e il registro dell’eccesso, congenitamente connaturato all'”almodramma”. Emancipata e ardente, Gli amanti passeggeri è una commedia alla mescalina e come l’alcaloide del peyote ha un’azione eccitante sullo spettatore e sui passeggeri, che affollano una fusoliera satura di colori, pop e omosessualità. Radicale e in barba alle mezze misure, Almodóvar gira un film che pratica l’amoralità propria dello humor camp, guardando alla Spagna e alla crisi che l’ha piegata. In panne, come il suo aereo, la Península gira a vuoto dentro un cielito lindo, indecisa se precipitare o atterrare. Nell’attesa, mentre la classe operaia è sedata per evitare il panico e le ‘discese’ in piazza, la ‘prima classe’ si intrattiene come può dopo aver fallito a terra vita, matrimoni e banche. Se il Paese vive in equilibrio inerziale sotto un regime di dittatura finanziaria, nell’alta quota della finzione Almodóvar cerca e trova la sua catarsi, risvegliando i suoi personaggi agli anni della movida madrilena. La sregolatezza e la piena libertà che caratterizzarono lo spirito della capitale spagnola nell’era postfranchista risalgono come un rigurgito o uno schizzo organico a sfogare il dolore, la perdita e la sconfitta. La dismisura impatta il compromesso e drammatizza una realtà che in Spagna come in Italia ha preferito governare e controllare le pulsioni melodrammatiche dell’immaginario collettivo, declinandole in forme espressive addomesticate. In un tourbillon di lacrime, desideri, turgori, umori, eccessi, cadute, impennate, punti esclamativi ritmici e coreografici, Almodóvar cortocircuita personaggi, destini e dialoghi fino all’appagamento nell’amplesso. Perché il suo cinema non conosce scacco e trova sempre soddisfazione, rimandando la morte o raggiungendo il massimo piacere nel suo approssimarsi. Lasciata la casa e la città, collocazioni ideali della sua filmografia, l’autore spagnolo pratica l’autoerotismo a cinquemila metri di altezza, invitando i suoi attori a una sessualità gioiosa. Lo sanno bene Javier Cámara, Carlos Areces e Raúl Arévalo, steward ineguagliabili e gaissimi dentro un crescendo musicale. Sulla pista restano invece gli attori di ieri, amabili zavorre e indissolubili legami. Assegnati ai blocchi e al trasporto bagagli, Penélope Cruz e Antonio Banderas sono comparse ‘gravide’ di (altre) storie.
Una serie di intricate vicende di un gruppo di persone tutte ossessionate dal sesso: da Reza Niro, un diverso, a Sexilia, ninfomane. Recuperato nel 1990 sulla scia del successo di Almodóvar (che qui appare nelle vesti del regista di fotoromanzi), è un filmaccio sgangherato, senza centro, piuttosto mal recitato. Il peggior torto che gli si può fare è quello di prenderlo sul serio.
Un film di Pedro Almodóvar. Con Eusebio Poncela, Carmen Maura, Miguel Molina, Bibì Andersen, Antonio Banderas. Titolo originale La ley del deseo. Drammatico, durata 106′ min. – Spagna 1987. – VM 18 – MYMONETRO La legge del desiderio valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Gli amori di un regista omosessuale, diviso tra due ragazzi (uno poi ucciderà l’altro), e quelli di sua sorella, attrice procace che un tempo era suo fratello, transessuale immerso nella memoria dell’amore incestuoso per il padre col quale era scappata di casa e per il quale aveva cambiato sesso. Il film che impose in Italia Almodóvar, poligrafo eccentrico di origine contadina, ex hippy, teatrante, cineasta alternativo della trasgressione: un cocktail di romanticismo e buffoneria, surrealismo e grottesco, melodramma e farsa. Il trionfo del cattivo gusto, ma volutamente portato all’estremo e condito con umor nero di inconfondibile segno ispanico. Può affascinare o irritare, certamente diverte.
Si vede discretamente ma è probabile che sia un vhsrip