Un capitano della polizia sovietica dà la caccia in America a uno spacciatore di droga russo. Costui, arrestato a Chicago per un reato minore, viene consegnato a Danko (Schwarzenegger) ma fugge con l’aiuto dei suoi complici. Danko deve rimettersi al lavoro, in coppia con un volonteroso agente americano.
Travestito da povero, un milionario stanco della vita offre un milione a colui che compirà un atto di bontà verso di lui. Comincia la caccia al povero da beneficiare, ma il finto povero è trascurato. Ideato e scritto da C. Zavattini con altri sceneggiatori, è sicuramente il più famoso, forse il migliore, ma non il più tipico, film di Camerini negli anni ’30. Influenzato più dalla commedia hollywoodiana che da René Clair e arricchito da piccole trovate quasi surrealistiche di umore zavattiniano, ebbe così successo che fu rifatto a Hollywood in Chi vuole un milione? (1938). 2° dei 9 film di Camerini con A. Noris che sposò nel 1940 e da cui si separò nel 1942.
Trascurata dal marito, la principessa Lucia, per ingelosirlo, s’inventa invio di omaggi e telefonate misteriose. Morta la commedia di costume, le è subentrata quella evasiva, brillante, frivola che non ha più agganci con la realtà. Vitti in gran forma e Abatantuono colorito per placida enfasi e linguaggio immaginoso. Dalla commedia Appuntamento d’amore di Aldo De Benedetti, sceneggiata dal regista col figlio Enrico Vanzina.
Cronista televisivo insiste perché Dixie Leonard e Eddie Sparks appaiano in una trasmissione. Rievocazione della vita dei due cantanti-fantasisti dal ’42 attraverso la seconda guerra mondiale, la Corea, il Vietnam. Tra autobiografia e storia, il film è discreto a livello decorativo, ma poco attendibile a quello storico-sociale. Un veicolo per la Midler.
L’ambiente è una comunità pianificata per ricchi, un sobborgo americano dove si scatena la violenza dopo che un ragazzo, dimesso da una prigione minorile, trova la morte sotto i colpi di un poliziotto. Gioventù bruciata americana in un film aggressivo diretto dall’abile Kaplan che mette a fuoco un argomento di attualità senza scavare in profondità. 1° film di Dillon. Buona musica.
Durante un soggiorno in un albergo vicino Chicago, Richard Collier, commediografo in crisi di ispirazione, crede di riconoscere nella fotografia dell’attrice Elise McKenna, diva degli anni ’10, l’anziana signora che 8 anni prima, agli esordi della carriera, gli aveva donato un orologio augurandogli un avvenire di successo. Sfogliando i vecchi registri dell’hotel, Collier scopre, in una pagina del 1912, accanto al nome della donna anche il suo. Irretito dal mistero, Collier, per mezzo dell’autoipnosi, lascia vagare la propria coscienza nel tempo fino a ritrovarsi in un impossibile passato in compagnia di Elisa per rivivere con lei una intensa storia d’amore e quando i due devono separarsi lui le fa dono di un orologio…Ridestatosi nel presente, Collier non sa più evadere da una profonda malinconia: il ricordo della donna è più che mai vivo e la sola speranza che gli resta per incontrarla di nuovo è abbandonarsi alla morte. L’incisione sulla cassa di un orologio: “Come back to me”… La sensazione di riconoscere in un viso il volto di un’altra… L’assurdo accostamento di due nomi lontani 70 anni l’uno dall’altro… La convinzione di vivere in un passato… Lo stesso orologio che passa di mano in mano e il tintinnio di una moneta del 1980 che fa svanire un sogno fin troppo simile ad una realtà… Gli elementi per un film di successo – e per una interessante divagazione in chiave intimistica sul tema del viaggio nel tempo (con un probabile riferimento formale al classico Il ritratto di Jennie) – ci sono tutti.C’è, soprattutto, una bella sceneggiatura tratta da un intrigante romanzo di Matheson. Ma, si sa, una cosa è il romanzo, un’altra il suo adattamento cinematografico… Nonostante le buone intenzioni (la cura nella ricostruzione d’ambiente, il taglio delle inquadrature, l’uso delle ombre e del colore pastoso), l’eccessiva componente sentimentalistica e l’interpretazione non molto convincente di Christopher Reeve non liberano il film dalla patina del preziosismo formale. Apprezzato più in America che in Italia.
Abbandonata al paesello la fidanzata incinta, un rustico zampognaro va a Napoli in cerca di fortuna e si innamora di una cantante di varietà che lo aiuta a far carriera come disk-jockey in una discoteca.
Il mondo animale è cambiato: non è più diviso in due fra docili prede e feroci predatori, ma armoniosamente coabitato da entrambi. Judy è una coniglietta dalle grandi ambizioni che sogna di diventare poliziotta, poiché le è stato insegnato che tutto è possibile in questo nuovo mondo. Nick è una volpe che vive di espedienti nella capitale, Zootropolis, dove Judy, dopo un estenuante training in accademia, approda come ausiliaria del traffico. Toccherà a loro, inaspettatamente uniti, risolvere il mistero dei 14 animali scomparsi che tutta la città sta cercando e sventare i piani di chi vuole impossessarsi del potere locale, secondo l’atavico principio divide et impera. Zootropolis, cartone Disney supervisionato dall’onnipotente John Lasseter, affronta di petto la tematica più attuale di tutte: l’uso della paura come strumento di governo. E va a toccare un altro degli argomenti più sensibili in ogni epoca, ovvero l’esistenza (o meno) di una predisposizione biologia al crimine per alcune razze e alcune etnie. Ma si spinge anche oltre, andando ad analizzare il rapporto fra massa ed élite, nonché l’opportunità (o meno) di sopprimere la natura selvaggia e istintiva sacrificandola all’ordine sociale, flirtando con l’eterno dilemma se nella formazione degli individui, e delle società, conti maggiormente la natura o la cultura. In realtà il discorso portante è quello dell’autodeterminazione a dispetto della propria limitata dotazione di base: un discorso che, da Monsters & Co a Planes a Turbo, attraversa molta animazione recente. È la filosofia “Yes you can” che ha portato alla presidenza americana un afroamericano e che sta alle radici del (nuovo) sogno americano. Il corollario di questa filosofia è l’ostinazione “ottusa” di Judy a “non mollare mai”, perché nessuno può dirle ciò che può essere e non essere, ciò che può e non può fare. Naturalmente quello che conta in Zootropolis è il modo in cui questi temi vengono sviluppati, sia a livello di narrazione che di espedienti visivi. E se la sceneggiatura mostra un gioco di semina, di echi e di rimandi fin troppo calibrato, la regia, ad opera di un team di cui fa parte anche Jennifer Lee, la wonder woman dietro Frozen, si sbizzarrisce in fughe rocambolesche, inseguimenti, esplosioni, battaglie ed equilibrismi attraverso ben quattro ambienti distinti: campagna, città, vette innevate e foresta tropicale. La vera forza del film però è l’escalation di battute sia nell’interazione fra Judy e Nick, nati per creare la chimica perfetta, sia nella caratterizzazione di decine di specie animali, fra cui spiccano i bradipi impiegati alla motorizzazione (a riprova che la burocrazia è esasperante a qualunque latitudine) e l’equino hippie doppiato in italiano da Paolo Ruffini. Ci sono anche il roditore che cita il Padrino, la donnola che vende cd taroccati, l’elefantessa maestra di yoga, i lupi che ululano a sproposito, come i cani di Up “biologicamente” predisposti a puntare ogni loro simile di passaggio, il leone sindaco, il bufalo muschiato capitano di polizia, persino la gazzella superstar che ha la voce e le movenze sensuali di Shakira. Tutti indossano abiti umani, camminano in posizione eretta, spippolano sugli smartphone (che recano sul retro il simbolo di un ortaggio morsicato), comunicano via Skype e scaricano App per inventarsi identità virtualil. Perché il presupposto ideologico, per questo come per altri cartoon (vedi Madagascar) è che il regno animale ambisca al modello antropomorfico di civiltà contemporanea: assunto che nessun animale, ancorché ottuso, probabilmente condividerebbe.
Raimi costruisce un film ipercitazionista (Sergio Leone è il più saccheggiato) con il pretesto della presenza di Sharon Stone. L’idea del torneo tra pistoleri a eliminazione diretta non sarebbe malvagia se non ci fosse il problema che, dopo un po’, il finale diventa prevedibile e l’interesse si perde. Gene Hackman se la cava, come sempre, da par suo.
Un film di Jack Smight. Con Rod Steiger, George Segal, Lee Remick, Murray Hamilton, David Doyle Titolo originale No Way to Treat a Lady. Poliziesco, durata 108 min. – USA 1968. MYMONETRO Non si maltrattano così le signore valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Gara d’astuzia, venata d’umorismo, tra un poliziotto e uno strangolatore folle. Questi, sicuro della propria superiorità, tormenta il rivale con una serie di telefonate. Nell’ultima dichiara d’essere ormai imprendibile perché ha deciso di ritirarsi dal crimine. L’investigatore, allora, monta una trappola.
Psicodramma con uno scenario cimiteriale e fantasmi del passato che saltano su a rimembrare le malefatte dell’umanità. Sfilano Attila e Eliogabalo, l’imperatore Montezuma e la contessa Sanguinaria
La storia è incentrata sulla nascita e l’ascesa del Cartello di Guadalajara negli anni ’80, quando Miguel Ángel Félix Gallardo ne assume il comando, unificando i singoli commercianti di droga di tutto il Messico per costruire una organizzazione univoca in grado di gestire l’intero flusso di marijuana e cocaina verso gli Stati Uniti. Quando l’agente della DEAKiki Camarena si trasferisce insieme a sua moglie e suo figlio dalla California a Guadalajara per assumere un nuovo incarico, scopre rapidamente che il suo nuovo compito sarà più impegnativo di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Mentre Kiki indaga su Félix, si verifica una tragica catena di eventi, che influenzano il traffico di droga e la guerra contro di essa negli anni a venire.
Corleone, un giovane ambizioso e senza scrupoli, si mette al servizio dei mafiosi locali. Un “pezzo da novanta” gli ordina di uccidere il suo migliore amico, un sindacalista, e il giovane lo fa, ma solo per acquistare maggior potere e prendere il posto dei vecchi capomafia. Ci riesce e in capo a una ventina d’anni diventa il boss più temuto dell’isola. Ma la giustizia (meglio tardi che mai) gli è addosso. Il protagonista riesce a giocarla per un po’, ma intanto è divenuto personaggio scomodo anche per i suoi seguaci: lo ammazzano davanti alla moglie e ai figli.
Clara Manni, ex commessa diventata una divetta del cinema commerciale, sposa con riluttanza un produttore al quale chiede di poter interpretare un film su Giovanna d’Arco. Il film è un fiasco e per aiutare il marito a risollevarsi prende parte a un film mediocre ma redditizio, poi divorzia. 2° lungometraggio di M. Antonioni che riesce soltanto in parte a descrivere il mondo del cinema, analizzandone la mercificazione, la precarietà, il mediocre cinismo. Lo schema narrativo è ancora melodrammatico, ma sono le decantazioni, le diramazioni, i prolungamenti, i modi di costruzione dell’inquadratura, gli sfondi figurativi che contano. È una tipica opera di transizione tra il vecchio e il nuovo. Giudicandolo troppo autobiografico, Gina Lollobrigida rifiutò la parte. Grolla d’oro per A. Checchi.
Un film di Frank Tashlin. Con Jill St John, Ray Walston, Jerry Lewis Titolo originale Who’s Minding the Store?. Comico, durata 90′ min. – USA 1963. MYMONETRO Dove vai sono guai valutazione media: 2,79 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Di mestiere accompagna i cani a passeggio, sentimentalmente è legato a una commessa che, in realtà, è ricchissima, ma lui non lo sa. È il settimo film di J. Lewis con la regia di Tashlin, e uno dei più squilibrati. Ma le sequenze buffe non mancano tra cui, buffissima, quella in cui Lewis cerca di vendere scarpe a una lottatrice. E i numeri di Tashlin, geniale coordinatore di disordini, non mancano: la macchina da scrivere, l’aspirapolvere, il golf.
Pete St. John (R. Gere) è un professionista di campagne pubblicitarie elettorali, “capace di trasformare Gheddafi in Babbo Natale”. Cinico senza freni, ha per avversario il suo ex socio e maestro (G. Hackman), persuaso, invece, che non si può lanciare chiunque. Scritto dal giornalista David Himmerlstein, è un film politico sulla politica, interessante per le riflessioni che suggerisce sulla natura della democrazia politica USA, sullo strapotere di manipolazione dei mass media nella civiltà dello spettacolo dove l’immagine conta più che le idee, l’apparire prevarica sull’essere. Generoso, ambizioso, apprezzabile come testimonianza della coerenza di S. Lumet, vecchio liberal, ma troppo verboso e predicatorio, con personaggi che sono portavoci di idee.
Barry è un contrabbandiere di stupefacenti. La polizia, che lo ha pizzicato, vuole la sua collaborazione per sgominare i grossi produttori di droga che fanno base in Columbia. L’uomo accetta ma dopo breve periodo deve cavarsela da solo.
Dal romanzo (1904) di Jack London: i superstiti di un naufragio, causato dalla nebbia, nella baia di San Francisco sono raccolti da una nave, comandata da un capitano dispotico e psicopatico che si rifiuta di sbarcarli. Scoppia un ammutinamento. Epilogo tragico. Sceneggiata da Robert Rossen con qualche verbosità, diretta con mano sapiente, sostenuta da contributi tecnici di prim’ordine (fotografia di Sol Polito, musiche di Erich Wolfgang Korngold), è la migliore delle tante versioni del romanzo, filmato 3 volte nel muto (1913, 1920, 1925) e altre 5 volte nel sonoro (1930, 1950, 1958, 1993 per la TV e, in Italia, 1975 con lo stesso titolo e con la regia di Giuseppe Vari).
Un film di Clarence Brown. Con James Stewart, Hedy Lamarr, Ian Hunter Titolo originale Come Live with Me. Commedia, Ratings: Kids+13, b/n durata 86′ min. – USA 1941. MYMONETRO Vieni a vivere con me valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Austriaca clandestina negli USA sposa per convenienza uno scrittore senza una lira e poi scopre di amarlo. Pezzo di bravura di Stewart, caleidoscopico commediante, e della Lamarr, attrice media e incantevole donna. Dialogo spumeggiante con intenzioni di umorismo, regia leggera, paesaggi di cartapesta come in un album di cartoline del 1910. Brava A. de Walt Reynolds nella parte della mamma di Stewart.
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