Soul e Adam sono stati divisi dal crollo delle Torri Gemelle. Soul è morta e Adam no. Soul è stata inghiottita dal cemento e dal metallo fuso, mentre Adam ha cercato di sopravvivere costruendosi una vita sbagliata. Adam non ha smesso un attimo di amarla e, come richiamata dal suo dolore, un giorno Soul è tornata dall’inferno, ricomparendo nello stesso luogo, come se per lei non fosse passato che un attimo. Inizia così il viaggio allucinante di Adam Mack alla ricerca della sua compagna, una strada che lo porterà a scoperchiare il vaso di Pandora e a scoprire l’incredibile esistenza di un governo occulto e antichissimo che segrega gli esseri umani in una prigione per il corpo e un inferno per l’anima.
Susan raggiunge il marito Jack ad Haiti, che vive con una governante lesbica e Olga, una bionda ninfomane che si prensenta come sorella di Jack. Susan inizia ad avere strani incubi popolati da riti voodoo e morti violente.
Nell’immaginario regno di Arendelle, situato su un fiordo, vivono due sorelle unite da un grande affetto. Un giorno, però, il magico potere di Elsa di comandare la neve e il ghiaccio per poco non uccide la più piccola Anna. Cresciuta nel dolore di quel ricordo, Elsa chiude le porte del palazzo e allontana da sé l’amata sorella per lunghi anni, fino al giorno della sua incoronazione a regina. Ma ancora una volta l’emozione prevale, scatena la magia e fa piombare il regno in un inverno senza fine. Sarà Anna, con l’aiuto del nuovo amico Kristoff e della sua renna Sven, a mettersi alla ricerca di Elsa, fuggita lontano da tutti, per chiederle di tornare e portare l’atteso disgelo. Dell’ispirazione dichiarata, fornita da una delle fiabe più ermetiche e suggestive di Andersen, “La regina delle nevi”, c’è ben poco, a parte la scheggia di ghiaccio nel cuore e il viaggio di una ragazzina per riportare a casa l’oggetto del suo amore. Ma questo racconto più tradizionale, sceneggiato da Jennifer Lee, ha un suo appeal, differente, nell’urgenza emotiva che porta in scena e nell’originalità dei personaggi principali, nessuno dei quali si svela del tutto al primo ingresso. Così come il dono di Elsa ha un risvolto maledetto, anche i sentimenti di Anna acquistano infatti un’imprevista doppiezza, parallela a quella di Kristoff, per non parlare di quella molto meno ingenua che anima il principe Hans. La natura di vera e propria operetta musicale di Frozen (una scelta ardita, che rischia di non incontrare un consenso unanime) assegna ad ognuno il suo momento di gloria, approfittandone per innescare un’efficace sintesi narrativa in materia di presentazione del cast. Ecco allora che “Per la prima volta” (“For the first time in forever”) racconta in poche strofe il disperato desiderio di vita e d’amore di Anna, mentre “All’alba sorgerò” (“Let it go”) dà adito alla liberazione di Elsa dalle catene nelle quali si era costretta da sola e alla completa accettazione della sua natura portentosa. E, come in ogni musical che si rispetti, i costumi non sono accessori ma parte integrante dello spettacolo, che qui si arricchisce delle architetture nordiche, delle citazioni pittoriche e dello straordinario livello tecnico con cui il digitale dà forma, luce e sostanza al ghiaccio. Gli adulti non potranno non pensare a Carrie o ai mutanti della saga degli X-Men, mentre i più piccoli non avranno occhi che per Olaf, il pupazzo di neve. Intanto la Disney conferma di aver intrapreso un cammino lento ma ben visibile verso un nuovo modello di principessa, che non ha più bisogno del bacio del principe per scoprirsi degna del proprio ruolo.
In una villa di fantasmi, il dottor Markway compie degli esperimenti di parapsicologia insieme ad alcune persone dotate di facoltà medianiche. In un crescendo di tensione tra i personaggi assistiamo al precipitare della situazione.
Convinto di essere un grande comico misconosciuto, giovanotto sequestra un celebre presentatore televisivo con l’aiuto di un’amichetta, squinternata e fanatica come lui, per costringerlo a dargli spazio nel suo show. Sei anni di carcere, ma va in prima pagina. De Niro sopra le righe e Lewis sotto in questa livida commedia impregnata di tristezza nera e di malinconiche riflessioni sulla paranoia, i riti tribali di massa, il feroce rampantismo della gente in TV. Un insuccesso che fa onore a Scorsese.
Jesse Custer è un predicatore squattrinato che vive ad Annville, piccola cittadina del Texas; è stato posseduto da una creatura soprannaturale di nome ”Genesis” in un incidente che ha provocato la morte della sua intera congregazione di fedeli ed ha raso al suolo la sua chiesa.
Genesis, il prodotto di un accoppiamento innaturale e non autorizzato tra un angelo e un demone, è un bambino senza alcun senso di volontà individuale. Ad ogni modo, dato che è formato sia da pura bontà che da pura malvagità, può avere abbastanza potenza da rivaleggiare con Dio stesso e per questo, Custer, unito a Genesis, potrebbe essere il più potente essere vivente mai esistito: i suoi poteri gli permettono di farsi obbedire da chiunque.
New York, sera del 31 dicembre 1999. Il portapizze Philip J. Fry, mentre si trova a consegnare una pizza al laboratorio di criogenia applicata, cade accidentalmente dalla sedia su cui si era seduto pochi secondi prima (dopo aver capito di essere stato fregato), finendo accidentalmente in una delle capsule e rimanendo così congelato per 1000 anni.
Uscito dalla capsula il 31 dicembre 2999, conosce Turanga Leela, impiegata del laboratorio che si occupa di trovare lavoro ai nuovi arrivati. Leela, analizzando i discendenti di Fry, gli comunica l’esistenza del suo pro-nipote, il prof. Farnsworth. Appena Fry scopre che sarà obbligato per sempre a fare il fattorino, mestiere che odia, decide di scappare. Durante la fuga, incontra il robot Bender che diventerà poi il suo migliore amico.
Alexandre Gartemme (Philippe Noiret) è un piccolo proprietario terriero stanco di massacrarsi di lavoro agli ordini della donna che ha sposato, detta “la Grande” (Françoise Brion). L’ambiziosa signora non solo non lo aiuta ma gli rende la vita insopportabile. Fortunatamente le pene del nostro coltivatore stacanovista cessano improvvisamente il giorno in cui la moglie muore in un incidente d’auto tornando da un funerale. Ora finalmente Alexandre, dopo anni di schiavitù, può tirare il fiato, alzarsi quando gli pare, andare a pesca invece di lavorare, riscopre insomma i piaceri dell’ozio. Questa radicale metamorfosi preoccupa la gente del villaggio, in particolare la bella droghiera Agata (Marlène Jobert): quella pigrizia conclamata rischia di essere un esempio deplorevole per l’intero villaggio, di conseguenza i compaesani si mobilitano per tentare di restituire ad Alexandre il gusto del lavoro: gli rapiscono il cane Kalì, gli tendono trappole… Forse ci vuole un nuovo matrimonio per rimetterlo al lavoro come aveva fatto “la Grande”! La bella droghiera Agata si offre di sposare il ricco agricoltore in disarmo. Alexandre però mangia la foglia e all’ultimo momento, in chiesa davanti all’altare, se la dà a gambe inseguito dalla promessa sposa che lo chiama disperatamente. Come Michel Simon (Boudu sauvé des eaux), Alexandre è finalmente libero e “felice”. Alla faccia del politicamente corretto.
Nel 1976 la Nippon Animation ha prodotto un’altra serie animata ispirata ai personaggi del romanzo di Collodi, conosciuta in Italia col titolo “Bambino Pinocchio“.
La storia è quella classica del romanzo di Collodi, che narra del burattino di legno reso vivo da una fatina benevola per la gioia del suo “costruttore”. L’eroe principale è un ingenuo e molto fiducioso giocattolo/pupazzo di legno animato dalla magia della Fata: egli ha molte carenze e lacune da dover superare e vincere, prima che gli possa venir permesso di diventar un uomo vero.
La storia inizia quando Geppetto, un anziano falegname che vive da solo, desidera avere un nipotino che possa tenergli compagnia, inizia così a scolpire un ceppo di legno proveniente da un albero magico. La fata dai capelli turchini dona la vita al burattino e promette che se si rivelerà esser una brava persona dimostrando d’aver un buon cuore in futuro potrà anche esser trasformato in un esser umano.
Tratto da un noto libro illustrato di Raymond Briggs che l’ha adattato, è la storia di due anziani coniugi che, dopo l’inizio di un conflitto mondiale, vorrebbero premunirsi dalle conseguenze di esplosioni nucleari, ma le istruzioni ufficiali sono così inette e ridicole che soccombono. Non mancano i momenti suggestivi, la grafica è insolita (disegno bidimensionale animato nell’azione con sfondi tridimensionali), il messaggio polemico non fa una piega, ma il risultato complessivo è di una prolissità verbosa. Musiche di Roger Waters (con David Bowie). Nell’edizione inglese le voci sono John Mills e Peggy Ashcroft.
Terzo remake (conclamato) del film di Don Siegel L’invasione degli ultracorpi , dal romanzo (1956) di Jack Finney. Questa volta l’epidemia che trasforma gli umani in una via di mezzo tra zombie e robot sembra arrivare dallo spazio e gli unici a cercare di fermarla sono l’algida Kidman e il sanguigno Craig. La regia è stata affidata al tedesco Hirschbiegel che poi ha lasciato insoddisfatta la produzione (J. Silver) che ha provveduto con i fratelli Wachowski e il regista J. McTeigue a rimontare il film e a far aggiungere azione, adrenalina, lieta fine. Parte benino, il film, con un blando tentativo di critica di costume all’indifferenza dell’uomo moderno, ma s’impantana poi nel ridicolo involontario quando prevalgono inseguimenti, sparatorie, bombe molotov (!). La sontuosa confezione non dà contenuto a un film che perde per strada la metafora e resta solo irrimediabilmente prevedibile.
Danimarca, estate 1945. La II guerra mondiale è finita, ma sulle spiagge della costa occidentale rimangono 2 milioni di mine sparse dai nazisti per impedire lo sbarco degli angloamericani. In violazione della Convenzione di Ginevra per i prigionieri militari, l’esercito danese affida lo sminamento a 2.000 soldati tedeschi, minorenni arruolati da Hitler nelle ultime settimane di guerra. Metà di loro muoiono o rimangono mutilati. Al suo 3° LM, il regista danese, che firma anche soggetto e sceneggiatura, ha imbastito con indubbia perizia un dramma storico che ha il merito di aver svelato un episodio ignoto dell’immediato dopoguerra. Incorpora un doppio insegnamento: 1) le guerre non finiscono con il cessate il fuoco; 2) la vendetta di chi ha subito un’aggressione può essere altrettanto inumana. La sua scrittura è a tratti convenzionale e per avvincere fa un uso disinvolto della suspense in attesa dello scoppio imminente e di inverosimiglianze che ne indeboliscono la credibilità.
Nell’Egitto di oggi si è diffusa una generale corruzione, nella quale ha trovato spazio il terrorismo e l’adulterio è vissuto come normalità. Il film è tratto dall’omonimo romanzo (pubblicato in Italia da Feltrinelli) di Al-Aswani ‘Ala, uno degli esponenti di punta del movimento di opposizione egiziano Kifaya. Attraverso le vite parallele degli abitanti di un grande edificio costruito al Cairo negli anni trenta, vite che scorrono una accanto all’altra senza mai incrociarsi, il film mostra una rappresentazione critica della società egiziana, delle sue trasformazioni, delle sue ipocrisie, della corruzione, della violenza esercitata con la scusa del terrorismo.
Zombi 2 è un cult movie per eccellenza come dice Marco Giusti in “Stracult”. Un film che lo stesso Fulci amava così tanto da definirlo “un horror artaudiano”, prendendo a prestito le sue notevoli Poesie della crudeltà. Però aggiungeva che era “un horror senza crudeltà ma con molta presupposizione della crudeltà”. La partenza è subito inquietante con una misteriosa barca a vela alla deriva nella baia di Hudson. La polizia interviene e un agente che si spinge all’interno scopre mosche, vermi e una mano mozzata in putrefazione. Una musica intensa realizzata con il sintetizzatore conduce lo spettatore verso l’inizio dell’incubo. Esce fuori uno zombi da una cabina e si divora l’agente a morsi in un trionfo di splatter, mentre l’altro poliziotto spara a ripetizione e riesce a far cadere in mare lo zombi.
Un bieco speculatore che non tiene conto del rispetto per la natura usa per i salmoni dei suoi vivai nuovi metodi genetici e produce orridi mostri che s’accoppiano con le belle del luogo producendo nefanda progenie.
In una giornata apparentemente come tutte le altre a Tokyo arriva una lucertola gigante non identificata, che comincia a seminare distruzione in città. Mentre il governo si riunisce in cerca di una soluzione al problema, la creatura evolve in continuazione, assumendo forme sempre più letali. Come un emblematico contrappasso Gojira, noto al di fuori del Giappone come Godzilla, appare immancabilmente a “punire” il popolo del Sol Levante, reo di perseverare nei medesimi errori.
Affresco di una piccola comunità rurale sull’arco di quattro generazioni, dal 1945 alla fine del secolo. Protagonista invisibile: il tempo che passa. Linea narrativa: matriarcale. Antonia che generò Danielle che generò Thérèse da cui nacque Sarah, voce narrante. In questo Heimat fiammingo gli uomini sono in seconda fila: abietti o fragili o coglioni, talora gentili. Sagace, e qua e là furbesca, mistura di patetico e grottesco, pubblico e privato, violenza e tenerezza con una marcata componente anticlericale e un pragmatico amore per la vita, contrapposto al cupo pessimismo di un vecchio che cita Nietzsche e Schopenhauer. Qualche rigidità didattica. Oscar 1996 del miglior film straniero.
Ballerino russo e star del musical si sposano solamente per poter divorziare e chiudere la bocca una volta per tutte alle malelingue che li credono sposati. S’innamorano davvero. I momenti cantati (grazie alle musiche di George e Ira Gershwin) valgono paradossalmente più di quelli danzati.
“Se le api sparissero dalla Terra, all’umanità resterebbero solo 4 anni di vita”, così disse Albert Einstein, considerando che oltre un terzo della nostra alimentazione deriva dall’impollinazione delle api. Imhoof risale all’attività originaria della sua famiglia, che produceva miele, per raccontare un mistero: negli ultimi 15 anni enormi quantità di api sono morte, ovunque nel mondo. E non se ne conosce la causa, solo il nome: Colony Collapse Disorder . Con immagini prepotenti catturate nei diversi continenti e svelando retroscena ignoti al pubblico, Imhoof realizza un documentario inquietante e fondamentale per comprendere i danni mostruosi che stiamo continuando a compiere sul pianeta. Distribuito da Officine Ubu.
Le richieste di reupload di film deve essere fatto SOLO E ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.
Visto il poco spazio su Mega (2 terabyte) NON caricherò più serie tv e fumetti.
Se interessati a serie o fumetti contattatemi via email che vi spiego un metodo alternativo